Le epilessie dell’età adulta

La terapia farmacologica

Principali generali
La terapia antiepilettica è una terapia sintomatica, capace di prevenire l’insorgenza delle crisi, ma priva di azione sui processi causali dell’epilessia. Lo studio dei focolai emorragici post-traumatici ha mostrato inoltre che i farmaci antiepilettici non hanno alcuna proprietà nel prevenire l’epilettogenesi, cioè l’insieme delle modifiche tessutali che trasformano una lesione in un focolaio epilettogeno e generano le crisi. La terapia farmacologica dell’epilessia entra in gioco quando non è possibile rimuovere le cause, quando le crisi proseguono nonostante la rimozione delle cause o quando le cause non sono note. Altre due condizioni sono necessarie: che le crisi, come peraltro quasi sempre avviene, peggiorino la qualità della vita, e che il paziente dia un consenso informato ad una terapia di lunga durata (anni o decenni). Obiettivo principale della terapia è il controllo, possibilmente completo, delle crisi in assenza di effetti collaterali rilevanti. Obiettivo secondario e ugualmente importante è liberare il paziente dall’ansia delle ricadute.

In linea generale, i farmaci per l’epilessia determinano, un decremento dell’eccitazione, un incremento dell’inibizione o prevengono l’eccitabilità aberrante dei neuroni (FIGURA 7).

Alcuni farmaci possiedono molteplici meccanismi d’azione, non sempre interamente chiariti. È possibile riconoscere alcuni meccanismi d’azione fondamentali:
      1) effetto stabilizzante sulla membrana cellulare attraverso il blocco dei canali del sodio voltaggio dipendenti e/o del calcio (più recentemente anche dei canali del potassio); tra i farmaci esplicano la loro azione attraverso questi effetti sono annoverati, in ordine alfabetico, carbamazepina (CBZ), etosuccimide (ETS), fenitoina (PHT), lacosamide (LCS), lamotrigina (LTG), oxcarbazepina (OXC), retigabina (RTG), rufinamide (RFD), topiramato (TPM), valproato (VPA);
      2) potenziamento della trasmissione inibitoria del GABA attraverso la stimolazione recettoriale, il blocco della ricaptazione o la inibizione del sua degradazione; utilizzano questo meccanismo tutte le benzodiazepine (BDZ: clonazepam, CNP e clobazam, CLB), fenobarbitale (PB), tiagabina (TGB), topiramato (TPM), vigabatrin (VGB), lo stiripentolo (STP);
      3) inibizione dei meccanismi eccitatori del glutammato ed aspartato attraverso un blocco recettoriale o una inibizione del rilascio dei neurotrasmettitori; i farmaci che hanno questo tipo di attività includono felbamato (FLB), lamotrigina (LTG), topiramato (TPM);
      4) blocco del rilascio dei neurotrasmettitori dalle vescicole sinaptiche attraverso il legame con specifiche proteine; questo meccanismo riguarda un solo farmaco, il levetiracetam (LEV) e le molecole derivate. I principali meccanismi di azione sono riportati nella TABELLA 5.

Tabella 5. Principali meccanismi d’azione dei farmaci antiepilettici
  Blocco canali Na+ Blocco canali Ca++ aumento trasmissione GABA Facilitazione ioni Cl- Altro
Farmaci di I° generazione          
Acido Valproico ? + + - ++
Benzodiazepine - - ++ - -
Carbamazepina ++ +   - +
Etosuccimide - ++ -   -
Fenobarbitale - - + ++  
Fenitoina ++ ? - - +
Farmaci di II° generazione          
Eslicarbazepina ++ - - - -
Felbamato ++ + + - +
Gabapentin ? ++ ? - ?
Lacosamide + -     -
Lamotrigina ++ ++ + - +
Levetiracetam - + + - ++
Oxcarbazepina ++ ++ ? - +
Pregabalin - ++ - - -
Rufinamide ++ - - - -
Tiagabina - - ++ - -
Topiramato ++ + + - +
Vigabatrin - - ++ - -
Zonisamide ++ ++ ? - +

Tutti i farmaci antiepilettici hanno una azione sedativa e provocano all’inizio sonnolenza e vertigini. Vanno introdotti lentamente, con una titolazione progressiva e vanno ridotti o sospesi in maniera ancora più graduale, poiché la sospensione brusca è una delle cause più frequenti di ricaduta o di sviluppo di uno stato di male. La dose del farmaco deve essere personalizzata e modulata in rapporto all’andamento delle crisi. Se le crisi persistono si incrementa il dosaggio fino alla massima dose tollerata; se compaiono effetti secondari fastidiosi la dose va ridotta, rinviando nel tempo ulteriori aumenti.; se i fastidi non regrediscono il farmaco va sospeso. In caso di effetti idiosincrasici (reazioni allergiche; vedi oltre) la terapia va attentamente sorvegliata: se si osserva solo un eritema (orticaria o arrossamento della cute) è sufficiente controllare il paziente in maniera continua sorvegliando l’andamento dell’eritema, che non raramente si estingue spontaneamente. Se compaiono bolle il farmaco va sospeso.

In linea teorica, l’uso di un solo farmaco (monoterapia) è da preferire, poiché l’associazione di due farmaci (biterapia) o di più farmaci (politerapia) rende più difficile la aderenza del paziente, aumenta le interazioni farmacologiche e peggiora gli effetti tossici a lungo termine e l’effetto teratogeno. Un farmaco di prima linea inefficace alla dose massima va sostituito con un’altra molecola, ma le possibilità di successo scendono drasticamente. In caso di ulteriore fallimento si può utilizzare un terzo farmaco, ma ci si può attendere con il terzo farmaco un risultato è efficace solo in una bassa percentuale di casi (3- 5% dei pazienti). Si deve perciò prendere in considerazione l’aggiunta di un secondo farmaco, inizialmente a basso dosaggio. La durata dei tentativi terapeutici dipende dal numero delle crisi, ma due anni di terapia sono la il periodo medio che consente di valutare la risposta del paziente. Dopo il terzo fallimento (forse già dopo il secondo, se le crisi sono frequenti) il paziente può essere definito farmacoresistente, e la politerapia non può essere evitata. Si può cercare di realizzare una “politerapia razionale”, cioè la combinazione di molecole con meccanismi d’azione diversi e complementari, ma tranne poche eccezioni (es. combinazione di valproato e/o etosuccimide e/o lamotrigina nelle assenze, cioè in crisi tendenzialmente a buona prognosi) nella pratica clinica le scelte continuano a rimanere ancorate a procedure empiriche.

Un’ultima considerazione riguarda gli effetti collaterali subdoli e cronici: “vecchi farmaci” come la fenitoina e in misura minore i barbiturici possono determinare effetti cosmetici silenti e quasi inavvertibili, quali gonfiore delle gengive e dei tessuti molli del viso, così come atrofia cerebellare. Il medico deve essere all’erta, poiché il paziente può non averne percezione. Un evento simile si è verificato con farmaco “moderno” come il vigabatrin, che ha provocato a lungo termine riduzioni clinicamente silenti del campo visivo, rendendo necessaria la sospensione e riducendo di molto le indicazioni, ora limitate alla sindrome di West, specie se da sclerosi tuberosa.

Inizio della terapia
Dal momento che una volta introdotta la terapia va protratta a lungo e che la sospensione del trattamento è sempre un evento a rischio, il suo inizio è un momento delicato. Un principio solido e razionale è che le alterazioni EEG, anche se specifiche e indiscutibili, non giustificano il trattamento se non vi sono crisi cliniche (“si cura il paziente e non il suo EEG”). Innanzitutto, di fronte alle prime crisi è cruciale escludere una epilessia sintomatica acuta, cioè una patologia neurologica in rapida evoluzione da affrontare con terapie eziologiche e in cui le crisi sono solo un sintomo (es. meningiti, complicanze emorragiche di traumi cranici, lesioni cerebrali ischemiche o emorragiche). Le crisi vanno trattate, poiché sono un fattore di aggravamento, ma non va necessariamente impostata una terapia cronica. Le crisi precoci, che occorrono nella prima settimana dall’evento acuto possono non essere il preludio di una epilessia ricorrente. Solo in presenza di floride anomalie EEG associate a lesioni cerebrali alle neuroimmagini è prudente proseguire la terapia.

La decisione è ancora più difficile di fronte alla prima crisi in un soggetto senza patologie acute in atto. Teoricamente la terapia non andrebbe iniziata, poiché per molti studiosi la definizione stessa di epilessia richiede la ricorrenza delle crisi e quindi almeno due episodi. Valgono però per la prima crisi le considerazioni svolte per le crisi sintomatiche acute: in presenza di un EEG attivo e di lesioni cerebrali indiscutibili si può considerare l’avvio del trattamento; vi sono anche situazioni specifiche, quali attività professionali a rischio, un eccessivo timore del paziente circa le possibili ricorrenze o la sua chiara volontà di iniziare. Dare avvio alla terapia dopo un’unica crisi presenta l’inconveniente di non avere alcun termine di misura per valutare il successo terapeutico. Una strategia prudenziale è ottenere più registrazioni EEG, anche di 24 ore, e utilizzare l’EEG come misura del successo terapeutico: unica eccezione alla norma “non bisogna curare l’EEG ma il paziente”.

L’inizio della terapia richiede quindi la presenza di crisi epilettiche ricorrenti. Nella maggior parte delle epilessie dell’adulto, le crisi che hanno avuto esordio in epoche precedenti e impattano sulla qualità di vita del paziente, sostengono la opportunità di trattare. Crisi rare, senza disturbo di coscienza o solo nel sonno, con una lunga anamnesi e quindi senza tendenza al peggioramento possono rimanere senza terapia, dopo avere discusso con il paziente benefici e rischi.

Scelta del farmaco
Il farmaco antiepilettico ideale dovrebbe avere una efficacia adeguata, nessun effetto collaterale e un facile modalità di somministrazione. La scelta del farmaco e/o dei farmaci è principalmente legata alla identificazione del tipo di crisi e di sindrome epilettica. Vanno anche prese in considerazione condizioni peculiari del paziente quali età, sesso, profilo psichico, presenza di comorbidità, condizioni socio-culturali e non ultimo possibilità economiche e strutture assistenziali. In linea teorica, visto il numero delle variabili e il numero delle molecole disponibili, sembrerebbe possibile costruire una terapia relativamente specifica per ogni paziente. In realtà le scelte sono abbastanza standardizzate. Confermata l’efficacia, in un trattamento della durata di molti anni o senza previsione di sospensione diventano decisivi gli effetti collaterali.

I dubbi riguardano la scelta fra farmaci storici di cui sono note e sperimentate le qualità e i difetti (il valproato è considerato una scelta molto sicura nelle epilessia generalizzate così come la carbamazepina nelle epilessie parziali) e farmaci di recente introduzione con minori effetti collaterali e maggiore maneggevolezza (specie per le interazioni) ma con minore garanzia di tenuta nel tempo.

In generale, le crisi e le epilessie parziali rispondono in maniera comparabile a tutti i tipi di farmaci attualmente disponibili, senza una chiara specificità di azione. Nelle sindromi epilettiche generalizzate la scelta è più delicata. Nelle forme generalizzate idiopatiche, le assenze e le crisi miocloniche rispondono a terapie specifiche (classicamente etosuccimide e valproato e recentemente lamotrigina e levetiracetam) e l’uso inappropriato di altri farmaci (per esempio la carbamazepina) può aumentare la frequenza sia delle assenze che delle mioclonie; inoltre, l’epilessia generalizzata idiopatica è forse l’unica sindrome in cui un farmaco (carbamazepina) mostra risposte opposte nelle differenti crisi della sindrome (migliora le crisi convulsive e peggiora assenze e crisi miocloniche). Nelle forme generalizzate sintomatiche (encefalopatie epilettogene) tutti i tipi di crisi (crisi toniche, atoniche, assenze atipiche) rispondono in maniera insufficiente a ogni farmaco.

Uno schema indicativo può essere il seguente
      - nelle assenze: valproato, etosuccimide, lamotrigina, levetiracetam, topiramato;
      - nelle mioclonie: valproato, fenobarbital, clonazepam, levetiracetam, zonisamide;
      - nelle crisi tonico-cloniche (primarie o secondarie) la sequenza valproato, fenobarbital, carbamazepina o fenitoina, e tutti i farmaci di nuova generazione;
      - nelle crisi parziali la sequenza può essere più variabile e contemplare carbamazepina, valproato, fenitoina e tutti i farmaci di nuova generazione;
      - nelle encefalopatie epilettogene vengono utilizzati per le crisi cloniche, toniche, atoniche gli stessi farmaci delle assenze, delle mioclonie e delle crisi tonico-cloniche; inoltre per il trattamento degli spasmi in flessione e delle crisi toniche, farmaci relativamente specifici quali vigabatrin, clobazam, clonazepam, stiripentolo e rufinamide. I fallimenti sono la norma.

I farmaci e le relative indicazioni per tipo di crisi e sindrome epilettica sono riportati della TABELLA 6.

Tabella 6. Metabolismo, dosaggi, eventi avversi ed indicazioni cliniche dei farmaci antiepilettici
Farmaco Indicazione Metabolismo/eliminazione Dose iniziale Dose mantenimento Eventi avversi severi
Acetazolamide EP, EG Metabolismo renale 250 mg 500-1000 Rash, rara s. Stevens Johnson, anemia aplastica
Carmazepina EP Metabolismo epatico, metaboliti attivi 100-200 mg 400-1800 Reazione idiosincrasica, epatotossicità, rara s. Stevens Johnson, anemia aplastica
Clobazam EP, EG, cluster Metabolismo epatico, metaboliti attivi 10 mg 10-30 Raro rash idiosincrasico
Clonazepam EP, EG, cluster Metabolismo epatico, metaboliti attivi 1-2 mg 1-6 Raro rash idiosincratico, trombocitopenia
Diazepam EP, EG, cluster Metabolismo epatico, metaboliti attivi 5 mg 10-30 Depressione respiratoria
Etosuccimide EG, assenze Metabolismo epatico, 25% escreto invariato 250 mg 500-1500 Rash, rara s. Stevens Johnson, anemia aplastica
Felbamato EP, SLG Metabolismo epatico, metaboliti attivi 400 mg 1800-3600 Insufficienza epatica, anemia aplastica
Fenitoina EP, crisi TC Metabolismo epatico saturabile 200 mg 200-400 Reazione idiosincrasica, epatotossicità, rara s. Stevens Johnson, anemia aplastica, osteomalacia, Dupuytren
Fenobarbital EP, EG, crisi GTC Metabolismo epatico, 25% escreto invariato 30-50 mg 100-200 Reazione idiosincrasica, epatotossicità, rara s. Stevens Johnson, osteomalacia Dupuytren
Gabapentin EP Escreto invariato con urine 300 mg 1800-3600 Aumento crisi
Lacosamide EP Metabolismo epatico 50 mg 300-400 Vertigini, aritmia cardiaca
Lamotrigina EP, EG, SLG Metabolismo epatico con glucuronidazione 25-50 mg 100-400 Reazione idiosincrasica, insufficienza epatica, rara s. Stevens Johnson, anemia aplastica
Levetiracetam EP, EG, crisi miocloniche Escrezione urinaria 250-500 mg 750-3000 Disturbi comportamento
Oxcarbazepina EP Metabolismo epatico 150-300 mg 900-2400 Rash idiosincrasico, iponatriemia
Pregabalin EP Escreto invariato con urine 50-75 mg 100-600 Aumento peso, aumento crisi
Primidone EP, EG, crisi GTC Metabolismo epatico 125-250 mg 500-1500 Rash idiosincratico, agranulocitosi, trombocitemia, LES
Rufinamide SLG Metabolismo epatico 200 mg 1200-4800 Rash, QT corto
Tiagabina EP Metabolismo epatico 5 mg 30-45 Aumento crisi, stato di male
Topiramato EP, EG, SLG Prevalente metabolismo epatico, escrezione urinaria 25-50 mg 75-200 Perdita peso, calcolosi renale disturbi cognitivi
Valproato EP, EG Metabolismo epatico, metaboliti attivi 200 mg 4000-3000 Teratogenicità,pancreatite acuta, epatotossicità, trombocitemia, encefalopatia, ovaio policistico
Vigabratin EP, spasmi in SW 85% escreto invariato 500 mg 1000-2000 Disturbi campo visivo, aumento crisi
Zonisamide EP Escrezione urinaria 50-100 mg 200-600 Rash, rara discrasia ematica

EP: epilessia parziale; EG: epilessia generalizzata; GTC: generalizzata tonico-clonica; SLG: sindrome di Lennox-Gastaut

Effetti avversi
Gli effetti avversi condizionano, più delle stesse crisi, la qualità di vita. Possono essere idiosincrasici (allergici) e non idiosincrasici.
      Gli effetti idiosindrasici sono spesso dose indipendenti, imprevedibili, ad insorgenza acuta e fino dalle prime dosi e spesso impongono la rapida sospensione della terapia. Grazie al contributo della farmacogenetica, si va sempre di più delineando il substrato genetico di tale condizione (p. es. il profilo HLA nella popolazione cinese espone a un rischio molto elevato di reazione idiosincrasica maligna da carbamazepina). Quasi tutti i farmaci sono potenzialmente responsabili di reazioni idiosincrasiche, ma fra le molecole di vecchia generazione in particolare carbamazepina, fenitoina, fenobarbital; tra i nuovi farmaci la lamotrigina, responsabile più frequentemente degli altri farmaci di una dermatite esfoliativa maligna (sindrome di Stevens-Johnson) che può avere a evoluzione mortale. In genere le reazioni idiosincrasiche iniziano con una eruzione cutanea eritematosa, talora con febbre, e sono semplici da riconoscere clinicamente; in casi più complicati provocano epatiti immunoallergiche ed aplasie midollari, talora irreversibilie e fatali, che necessitano di diagnostica di laboratorio.
      Gli effetti non idiosincrasici sono abitualmente transitori e non gravi: soprattutto sedazione, vertigini, nausea, cefalea, malessere generale. Si evidenziano soprattutto all’inizio della terapia e si possono ridurre (ma non eliminare) con la lenta titolazione del farmaco, con l’inconveniente di ritardare l’azione terapeutica e facilitare l’interruzione della terapia prima che possa essere verificata l’azione terapeutica. Tendono a migliorare con la prosecuzione della terapia, ma possono obbligare alla sostituzione del farmaco. Alcuni possono presentarsi tardivamente. I barbiturici possono determinare disturbi delle funzioni cognitive quali riduzione delle capacità attentive, di concentrazione e di memoria, parzialmente reversibili; la fenitoina può provocare atrofia cerebellare, ma questo accade per dosaggi elevati e prolungati, mentre lentamente e a dosi terapeutiche può verificarsi ipertricosi e ipertrofia dei tessuti molli del viso (questi effetti sono irreversibili); il levetiracetam può peggiorare il tono dell’umore e facilitare disturbi del comportamento e idee di suicidio (condizioni reversibili); il valproato può aumentare l’ammoniemia per inibizione degli enzimi del ciclo dell’urea e provocare una encefalopatia subacuta con nausea, vomito, sonnolenza, confusione, che regredisce alla sospensione; il vigabatrin è responsabile di un restringimento progressivo del campo visivo per un danno tossico a livello retinico (irreversibile). È probabile vi siano suscettibilità genetiche, dimostrate ad esempio per l’encefalopatia da valproato. Gli effetti collaterali più tipici dei vari farmaci sono riportati nella TABELLA 6.

Conduzione del trattamento
La terapia va proseguita con regolarità, rispettando gli orari di assunzione (con tolleranza di più o meno un’ora) e soprattutto la dose totale. I controlli clinici e di laboratorio, frequenti in fase di avvio, diventano - tranne in casi specifici – sempre più rari. L’EEG, importante in fase di avvio per classificare le crisi e identificare il farmaco più indicato, diventa meno utile con la prosecuzione della terapia ed un controllo a lunghi intervalli è sufficiente; ritorna utile se si deve modificare o interrompere la terapia. Il monitoraggio plasmatico serve a verificare la corretta assunzione e assorbimento del farmaco, ma è meno utile per stabilire la dose di mantenimento, che deve essere valutata in base alla risposta clinica. Invece, il monitoraggio plasmatico diventa importante in presenza di una malattia intercorrente che richieda la assunzione di altre terapie, in presenza di disturbi gastroenterici (vomito e diarrea) che possono compromettere l’assorbimento del farmaco, se vi sono effetti collaterali non spiegati e se si deve aggiungere un secondo farmaco.

Sospensione della terapia
Il trattamento, una volta iniziato, va proseguito per un tempo stabilito sulla base della prognosi attesa per lo specifico tipo di epilessia. Il farmaco può essere interrotto con sicurezza quando la forma epilettica tende spontaneamente alla guarigione. Esempi paradigmatici sono le assenze dell’infanzia, che tendono a cessare spontaneamente con la pubertà, oppure le epilessie focali idiopatiche dell’infanzia con punte centro-temporali, che tendono a regredire prima dei venti anni. In tutti gli altri casi la sospensione del trattamento espone al rischio di recidive, anche dopo periodi liberi molto maggiori dei 3-5 anni, l’intervallo libero quasi universalmente richiesto prima di prendere in considerazione l’interruzione della terapia. La percentuale delle ricadute dipende dalla forma di epilessia: nelle epilessie generalizzate idiopatiche con crisi convulsive e mioclonie è quasi del 90%, anche dopo periodi liberi di decenni; la ricaduta avviene con crisi convulsive tonico-cloniche, non necessariamente precedute da mioclonie e quindi con le modalità a maggiore rischio. Nelle epilessie focali lesionali le recidive si attestano intorno al 50 - 80% dei casi. La percentuale di ricaduta è maggiore quando l’epilessia è esordita in età giovanile, più farmaci sono stati necessari per controllare le crisi, è già presente in storia un tentativo fallito di sospensione ed è stata dimostrata una lesione causale. Inoltre, è maggiore quando l’EEG è ancora attivo al momento della sospensione del trattamento, e soprattutto quando le alterazioni peggiorano nel corso della riduzione della terapia. In questa veste la registrazione seriata dell’EEG ambulatoriale di 24 ore è assai più utile dell’EEG standard, poiché consente una ragionevole quantificazione delle anomalie. Nelle epilessie generalizzate idiopatiche con crisi convulsive e nelle epilessie lesionali la scelta più consapevole, da prendere con il paziente che va preparato a questo esito, è continuare la terapia per tutta la vita.

Farmacoresistenza e meccanismi sottesi

Come già accennato, circa il 20-30% delle epilessie sono farmacoresistenti, non rispondono cioè adeguatamente al trattamento; le crisi persistono e possono peggiorare in frequenza e gravità). In media il primo farmaco ottiene il controllo delle crisi nel 70-80% dei casi; quando il primo ha fallito, un secondo farmaco ha successo solo nel 10-20% dei casi; quando anche il secondo farmaco ha fallito, il terzo farmaco è efficace solo nel 3-5% dei casi. Due principali ipotesi “chiave” sono state proposte per spiegare i meccanismi sottesi della farmaco resistenza. La prima presuppone una alterazione dei bersagli (target) dei farmaci, cioè delle strutture sulle quali i farmaci anticonvulsivi esercitano la loro azione terapeutica: p. es. modifiche conformazionali dei recettori dei neurotrasmettitori potrebbero condizionare la scarsa risposta alla terapia. L’altra ipotesi suggerisce il ruolo centrale dei trasportatori dei farmaci (le cosiddette multi-drug resistant proteins): queste proteine trasportatrici, sovraespresse nel cervello, potrebbero ridurre la concentrazione dei farmaci intorno ai neuroni dell’area epilettogena trasferendoli attivamente dal tessuto encefalico ai capillari.

Terapia chirurgica e altre strategie terapeutiche per le forme farmacoresistenti

Alla luce della drammatica riduzione di possibilità di raggiungere la libertà da crisi dopo il fallimento di tre farmaci antiepilettici, ancorché ben scelti e assunti a dosi adeguate, i pazienti con epilessia parziale farmacoresistente devono essere presi in considerazione per lo studio prechirurgico. Una attenta valutazione clinica, neurofisiologica (inclusiva della registrazione di alcune crisi), neuroradiologica e neuropsicologica è possibile selezionare i potenziali candidati alla resezione chirurgica dell’area epilettogena (chirurgia ablativa). Vi sono alcuni requisiti preliminari:
      1) area epilettogena unica e ben definita, dimostrata dalla registrazione di crisi parziali, monomorfe, congruenti con quelle abituali del paziente, ad origine dalla stessa area cerebrale;
      2) crisi senza primitivo interessamento di aree “eloquenti”, cioè di aree che sottendono funzioni neurologiche di base e non vicariabili, quali la motilità e il linguaggio, per evitare il rischio di deficit neurologici permanenti;
      3) presenza di una lesione negli esami neuroradiologici (condizione in casi particolari rinunciabile);
      4) correlazione armonica dei dati anatomo-elettro-clinici, cioè congruenza fra lesione, crisi elettrica e crisi clinica;
      5) esame neuropsicologico che (dopo valutazione di linguaggio, memoria e altri funzioni simboliche) confermi eventuali deficit congruenti con l’area epilettogena, escluda alterazioni funzionali di altri domini e rassicuri sul rischio di deficit residui post-chirurgici.

La valutazione inizia con lo studio non invasivo video-EEG e l’analisi degli aspetti elettro-clinici delle crisi al fine di una sicura localizzazione dell’area epilettogena. Per facilitare le crisi si riducono rapidamente i farmaci, ponendo il paziente in regime di sicurezza (casco, degenza a letto, sorveglianza e monitoraggio di 24 ore, in media per 4-8 giorni). Se lo studio video-EEG non delimita in maniera convincente l’area di esordio e propagazione delle crisi, oppure se esiste disarmonia tra i dati ed anatomici, EEG e clinici, è possibile ricorrere allo studio invasivo dell’EEG, mediante elettrodi sottodurali (subdural grids) cioè piastrine contenenti decine di elettrodi ordinatamente disposti, che vengono inserite chirurgicamente a contatto della superficie corticale; oppure elettrodi di profondità (depth electrodes), cioè fili con più contatti inseriti nel parenchima cerebrale mediante coordinate stereotassiche, secondo un piano esplorativo elaborato preliminarmente a tavolino. Lo scopo è, come per la video-EEG, registrare le crisi e delimitarne l’origine.

L’intervento più comune è la resezione del lobo temporale, la zona corticale più frequentemente implicata nelle forme resistenti, che può essere asportata con pochi esiti permanenti. Le funzioni di un lobo temporale sono vicariabili dal lobo controlaterale, e sono spesso già state compromesse dalla patologia epilettogena e dalla ricorrenza delle crisi. In questi pazienti la chirurgia consente il completo controllo delle crisi in circa il 60-70% dei casi. Meno confortanti sono i risultati chirurgici nelle forme di epilessia extratemporale dove la percentuale di successo scende al 40-60 %. I successi diminuiscono anche nei pazienti in cui non si è chiaramente evidente una lesione anatomica e l’area epilettogena è delimitabile solo in base ai dati EEG e clinici.

In casi particolari e molto selezionati, quando la chirurgia ablativa non è realizzabile e le crisi sono incontrollabili e a rischio (pazienti costretti a indossare in permanenza un casco protettivo), è possibile proporre una chirurgia palliativa. Gli interventi palliativi non mirano ad eliminare le crisi, ma a ridurne il numero e soprattutto a ridurre le cadute. I tipi di intervento includono la callosotomia (sezione del corpo calloso per ridurre la propagazione della scarica epilettogena e per evitare le cadute), intervento destruente che peggiora le prestazioni psichiche ed è quasi una scelta disperata; le resezioni subpiali per isolare l’area di partenza della scarica e evitarne la diffusione; la radiochirurgia (mediante gamma-knife o cyber-knife) per il trattamento di specifiche condizioni come l’amartoma ipotalamico; la stimolazione del nervo vago che modifica in modo utile la eccitabilità cerebrale, tecnica maggiormente indicata nelle epilessie parziali dell’infanzia e nelle encefalopatie epilettogene; più recentemente, le metodiche di stimolazione cerebrale, della corteccia e di alcune zone profonde (deep brain stimulation), p. es. la zona incerta o i nuclei anteriori del talamo. Si tratta di tecniche ancora in corso di studio, messe in moto dal successo delle stimolazioni profonde nella malattia di Parkinson e dalla tecnologia che si è sviluppata per questa patologia.

In alcune patologie infantili con epilessie catastrofiche e lesioni destruenti limitate ad una emisfero, come la encefalite di Rasmussen o alcune malformazioni vascolari come la malattia di Sturge-Weber, può essere realizzata entro i primi anni di vita la ablazione di un emisfero (emisferectomia) o l’isolamento dell’emisfero malato mediante resezione delle sue connessioni (emisferectomia funzionale). Le capacità di ricupero dell’emisfero sano, che si assume anche le funzioni dei quello asportato, sono in età infantile sorprendenti.

Tra gli approcci non chirurgici, per specifiche forme di epilessia dell’età infantile è possibile ricorrere alla dieta chetogena (un particolare tipo di dieta molto ricca di grassi), che modifica la eccitabilità cerebrale.

Vie di sviluppo

Il futuro della scienza è imprevedibile. Alcune aree appaiono maggiormente interessanti: la possibilità di prevedere le crisi e di bloccarne l’esordio mediante tecnologie combinate di registrazione e stimolazione; i trapianti di cellule neurali, fino ad ora deludenti poiché le cellule trapiantate vengono a loro volta coinvolte nell’epilettogenesi (ma si potrebbero impiantare cellule che producono in loco sostanze antiepilettiche, come si tenta di fare per ora senza successo nella malattia di Parkinson); l’uso di farmaci deposito; migliore identificazione dei circuiti epilettogeni per la interruzione delle scariche mediante microchirurgia. La terapia genica in epilessie di sicura origine genetica è teoricamente possibile, ma trattandosi del modificare il funzionamento del cervello apre problematiche etiche di grande portata. Per ora sembra più promettente investire nella riduzione delle forme criptogenetiche mediante perfezionamento delle tecniche di immagine, e investire in nuove molecole con meccanismi di azione innovativi.