Un compendio di neurologia per non medici

Patologia neurologica

Le patologie del sistema nervoso sono rese gravose da alcune caratteristiche del tessuto nervoso. La prima è l’incapacità di rigenerare del sistema nervoso centrale (la rigenerazione, anche se di solito insoddisfacente, è possibile solo nel nervo periferico e nel muscolo). Ogni danno dell’encefalo e del midollo è perciò potenzialmente permanente. Sono in corso di identificazione le zone cerebrali che conservano cellule staminali, cioè cellule ancora capaci di riprodursi e differenziarsi, ma fino ad ora non è stato possibile indirizzarle verso una ricrescita funzionalmente efficiente.

La seconda circostanza è la specializzazione funzionale. Le cellule nervose non sono intercambiabili: ognuna ha la sua storia e accumula le proprie esperienze. Si pensi ad esempio ai neuroni che presiedono ai movimenti delle dita di un pianista, o agli organi dell’equilibrio di un acrobata, che hanno impiegato anni per acquisire la loro abilità. La specializzazione delle cellule nervose è tanto maggiore quanto più la funzione è specifica (un limitato gruppo di neuroni frontali è capace di muovere il pollice destro, un gruppo di neuroni occipitali è capace di esplorare il campo visivo superiore di sinistra, ecc.). Le cellule perdute non vengono sostituite, e con loro se ne vanno le funzioni alle quali presiedono. L’azione vicariante di altre zone (la cosiddetta “plasticità neuronale”) è limitata nello spazio a poche aree funzionalmente simili, e nel tempo ai primi anni di vita e ai primi mesi dopo un danno acuto. Le vie di connessione del sistema nervoso centrale, formate dai prolungamenti delle cellule nervose (gli assoni), non rigenerano per nulla, e per questo le sezioni del midollo, costituito in larga parte da fasci di fibre, provocano perdite funzionali irreversibili. I tentativi di agevolare la ricrescita degli assoni centrali restano per ora a livello sperimentale.

Infine, quando i danni coinvolgono la corteccia cerebrale, e i circuiti che ad essa fanno capo, vi è il rischio che vengano alterati in modo sostanziale pensieri, emozioni e comportamenti, cioè la vera essenza della identità umana. La corteccia e le sue connessioni con le strutture immediatamente sottostanti (i gangli della base) sono il substrato dell’io, e qualsiasi lesione rischia di trasformare profondamente il controllo di se stessi e la relazione con l’ambiente. È oramai nozione accettata che anche le patologie psichiatriche trovano la loro base in alterazioni dei circuiti neurali, ma le psichiatria mantiene per tradizione e modalità di approccio al paziente la sua individualità, e mostra fra l’altro rispetto alla neurologia maggiori progressi terapeutici.

Principali categorie della patologia neurologica

Malattie circolatorie

Sono una delle principali cause di morte e di invalidità neurologica. Il motivo risiede nell’assetto metabolico del tessuto nervoso, il cui fabbisogno energetico è fornito pressoché interamente dalla ossidazione del glucosio. Le riserve tessutali di glucosio sono sufficienti solo per 2-3 minuti, e non vi è alcuna riserva di ossigeno: di conseguenza, il funzionamento e la sopravvivenza del tessuto nervoso dipendono dal continuo apporto di sangue ossigenato. L’interruzione del flusso genera dopo 2-3 minuti la paralisi funzionale, e dopo 5-6 minuti la necrosi del tessuto, che si estende nelle ore successive alle zone in cui il flusso è ridotto ma non del tutto sospeso (la “penombra ischemica”).

Per assicurare sangue all’encefalo vi sono quattro grossi vasi (due carotidi e due vertebrali), che possono scambiarsi sangue nel circolo anastomotico di Willis, posto alla base del cranio. Scambi possono avvenire fra i vasi di calibro intermedio della superficie della corteccia, mentre i vasi penetranti di piccolo calibro sono terminali, e la loro chiusura non consente compensi.

I disturbi circolatori sono caratterizzati dall’esordio acuto di un deficit neurologico (i più comuni) e da una successiva fase di miglioramento, a meno del sopravvenire di complicanze. I deficit neurologici più comuni sono la paresi di un arto o di un intero lato del corpo – monoparesi e emiparesi –, o la improvvisa perdita del linguaggio – afasia. La loro frequenza dipende dal territorio vascolare più spesso compromesso, quello della arteria cerebrale media.

I meccanismi patogenetici sono tre:

  • la chiusura di un vaso (ischemia)
  • la rottura di un vaso (emorragia)
  • le malformazioni dei vasi (aneurisma e angioma)

 

L’ischemia avviene a) per una placca arteriosclerotica, sulla quale si forma un trombo che occlude il vaso (trombosi); b) per un embolo, quando un coagulo formatosi sulle pareti del cuore o su una placca ulcerata di una arteria carotide o vertebrale viene distaccato dal flusso ematico e trasportato a valle, occludendo il vaso (embolia); c) per la dissezione delle pareti del vaso a opera di un versamento di sangue fra le guaine, che ingrandisce la parete fino a chiudere il vaso (aneurisma dissecante); più raramente d) per processi infiammatori che causano la occlusione di piccoli rami arteriosi (angiite). In tutti i casi il territorio dipendente dal vaso occluso non riceve più sangue. Se l’ischemia dura pochi minuti (per il pronto ristabilirsi della circolazione o per l’intervento di un circolo di compenso) il tessuto non subisce danni permanenti e il disturbo neurologico regredisce (attacco ischemico transitorio); se dura più a lungo si forma un infarto ischemico che allarga rapidamente i suoi confini interessando la “penombra ischemica”, cioè l’area in cui nelle prime ore giunge ancora abbastanza sangue da permettere la sopravvivenza dei neuroni (3-4 ore sono concesse per ristabilire il circolo ed evitare l’estendersi dell’area necrotica). Nella zona infartuata si può secondariamente versare sangue per la rottura dei capillari (infarto emorragico), mentre il disturbo neurologico si consolida.
L’emorragia avviene per l’azione combinata di un difetto della parete (di natura mal formativa o arteriosclerotica) e della spinta esercitata da una pressione arteriosa elevata. Il sangue si versa improvvisamente nel tessuto distruggendo e comprimendo fibre e cellule, e aumentando subitaneamente la tensione all’interno del cranio (emorragia intracerebrale). La gravità del quadro clinico dipende dalla entità e dalla sede della emorragia (i versamenti nella parte centrale del cervello sono più gravi). La mortalità è più alta che nell’infarto, ma gli esiti neurologici sono di solito meno gravi poichè molte fibre nervose non sono sezionate ma solo compresse, e possono riprendere la loro funzione.
Le malformazioni dei vasi possono essere arteriose (aneurismi), capillari (angiomi cavernosi, spesso multipli) o arterovenose (angiomi arterovenosi). Esse esercitano una azione patogena attraverso vari meccanismi: effetto massa sul tessuto circostante (compressione); sottrazione di sangue, “succhiato” dai vasi malformati che presentano un minore resistenza al flusso ematico rispetto ai territori circostanti (furto di sangue); fissurazione dei vasi (rottura) con versamento improvviso di sangue che si versa nel liquor (emorragia meningea), invade il tessuto (emorragia intracerebrale) e talora coinvolge ambedue le zone (emorragia cerebro-meningea). Infine, dopo l’emorragia si possono verificare spasmi dei vasi afferenti (ischemia) determinando infarti tardivi , meccanismo tipico degli aneurismi fissurati.

 

La terapia della fase acuta dell’ictus richiede una attenta sorveglianza per evitare le complicanze (dalle infezioni alle ulcere da decubito) e favorire la sopravvivenza della zona di “penombra ischemica”. È fondamentale una organizzazione logistica dei servizi di pronto intervento, per portare il paziente rapidamente in una “unità ictus”. Nelle occlusioni vasali infatti la terapia si avvale della possibilità di ricanalizzare il vaso mediante somministrazione endovenosa di farmaci fibrinolitici quali l’attivatore del plasminogeno tessutale ricombinante (rt-PA) , sostanze che sciolgono il trombo o l’embolo. La tecnica, applicabile solo negli infarti ischemici, deve essere realizzata entro 4 ore dall’ictus, dopo le quali rischio che il vaso si rompa provocando una emorragia diventa elevato e ne impedisce l’uso. Si stanno studiando tecnologie per raggiungere la sede della occlusione attraverso l’arteria a monte e rimuovere meccanicamente il trombo. Nelle emorragie meningee la terapia è chirurgica, e consiste nella chiusura precoce dell’aneurisma per evitare un secondo sanguinamento. Si può intervenire dall’esterno attraverso una craniotomia, o si può cercare di inserire nell’aneurisma, attraverso la via arteriosa, una spirale metallica che occlude la sacca (spirale di Guglielmi). Negli angiomi arterovenosi la terapia è chirurgica o radiochirurgica, con radiazioni mirate che provocano il collabimento progressivo dei vasi. Non sempre è opportuno intervenire sugli angiomi cavernosi, in cui la decisione terapeutica dipende dalla storia clinica, dalla sede della malformazione e dall’età del soggetto. A causa della l’elevata mortalità raramente vanno operate le emorragie intracerebrali, ma anche in questo caso la decisione va presa in base alla sede del versamento, alle condizioni generali e all’età del paziente.

 

La prevenzione dei disturbi circolatori è basata sul controllo dei fattori di rischio (diabete, ipertensione, fumo, obesità), e su farmaci che ostacolano la trombosi (antiaggreganti e, nelle patologie cardiache emboligene, anticoagulanti). Nelle placche arteriosclerotiche delle carotidi che riducono il lume vasale per più del 70-80% la prevenzione è chirurgica, e consiste nella rimozione della placca o nell’allargamento meccanico del vaso con uno “stent”. Gli esiti si correggono con la riabilitazione, che deve iniziare precocemente con il corretto posizionamento degli arti e la mobilizzazione periodica del paziente per evitare ulcere da decubito. Il trattamento riabilitativo deve sfruttare i primi mesi dopo l’ictus, poichè il periodo di massima possibilità di compenso arriva ai 6-12 mesi.

 

Tumori intracranici

L’encefalo è sede di metastasi (da tumori del polmone, mammella, cute, rene e colon) e di tumori primitivi. Questi ultimi possono originare dalle meningi (meningiomi), e sono di solito istologicamente benigni, o dai tessuti neurali, con gradi di malignità istologica molto variabili.
I meningiomi della volta cranica si asportano con facilità quando sono di piccole dimensioni. Si accrescono però in maniera lenta e se non provocano crisi epilettiche comprimono progressivamente l’encefalo senza provocare disturbi, fino a raggiungere dimensioni ragguardevoli e tali da rendere l’asportazione complessa, con cicatrici encefaliche residue. I meningiomi della base si manifestano più precocemente poiché comprimono i nervi cranici, ma sono fino dall’inizio di difficile rimozione.
Dei tumori neurali, alcuni (come gli oligodendrogliomi e gli astrocitomi di basso grado) crescono lentamente, relativamente separati dal tessuto sano e possono essere asportati con successo, consentendo lunghe sopravvivenze. Altri come i medulloblastomi, tipici del bambino, e gli astrocitomi di grado elevato, (astrocitomi anaplastici e glioblastoma multiforme) crescono in maniera tumultuosa e infiltrano in profondità i fasci di fibre, rendendo impossibile la asportazione completa e non consentendo lunghe sopravvivenze; provocano sempre edema del tessuto circostante, che aumenta le dimensioni e gli effetti meccanici della lesione.
I tumori che originano dall’ipofisi e dai tessuti vicini (adenomi e craniofaringiomi) mostrano vari gradi di invasività, ma se non provocano disturbi endocrini precoci o deficit del campo visivo da compressione del chiasma ottico raggiungono grosse dimensioni rendendo difficile la rimozione. I tumori che originano dai nervi della base cranica (di solito neurinomi acustici, istologicamente benigni), sono rimuovibili con successo quando le dimensioni sono piccole; sono trattabili anche con radioterapia. Buona prognosi hanno i tumori generati da linee cellulari estranee erroneamente incluse all’interno del cranio (tumori disembriogenetici, benigni). I tumori che provengono dai linfociti presenti nel tessuto nervoso (linfomi) sono istologicamente maligni ma rispondono bene alle radiazioni, associate a chemioterapia e corticosteroidi.

 

Come si è visto, la gravità dei tumori cerebrali dipende non solo dal loro aspetto istologico, ma anche dalla sede e dalle dimensioni, poichè i tumori della base cranica, delle porzioni centrali dell’encefalo e di grosse dimensioni sono di difficile ablazione. Un tumore benigno come il neurinoma del’acustico viene rimosso senza esiti quando è della dimensione di un chicco d’uva, ma quando diventa grande come una prugna non sempre il chirurgo riesce a risparmiare il nervo faciale, e gli esiti estetici sono spiacevoli (considerare sempre con sospetto la sordità di un solo orecchio).

 

I sintomi dei tumori sono costituiti da crisi epilettiche, sindromi focali ad andamento progressivo, segni di deterioramento mentale (specie nei tumori frontali e delle zone profonde del cervello). Infine, quando la massa tumorale è molto cresciuta, vi è aumento della pressione intracranica, depressione della vigilanza e coma (sindrome da ipertensione intracranica): l’encefalo infatti è contenuto in una scatola ossea non espansibile e ogni incremento di volume aumenta la tensione, disloca la massa cerebrale da un compartimento all’altro (ernia intracerebrale), ostacolando la circolazione e comprimendo strutture vitali. La comparsa della ipertensione endocranica è tardiva, tranne nei tumori che ostacolano precocemente il deflusso del liquor, come avviene nei tumori che crescono all’interno delle vie liquorali.

 

La diagnosi è basata sulle metodiche di immagine, soprattutto sulla risonanza magnetica, che va effettuata con mezzo di contrasto e consente di identificare sede e natura del tumore, e quindi pianificare la strategia terapeutica. L’esame è privo di rischi, e va richiesto in tutte le sindromi che possono teoricamente dipendere da un tumore (dalle epilessie demenze alle sindromi parkinsoniane alle sordità unilaterali). Paradossalmente, i tumori più aggressivi come il glioblastoma si evidenziano precocemente, ma il trattamento è insoddisfacente; mentre tumori asportabili senza esiti come i neurinomi acustici vengono spesso diagnosticati quando la rimozione diventa difficile. In non poche epilessie farmaco-resistenti la causa risiede in un tumore disembriogenetico o in un astrocitoma di basso grado, che vanno cercati con insistenza e con risonanze magnetiche mirate. Gli astrocitomi di basso grado possono decorrere a lungo con pochi sintomi o con epilessie miti e farmacosensibili, ma possono andare soggetti a “cambi di marcia” diventando istologicamente maligni e inarrestabili; la rimozione chirurgica assume perciò talora carattere preventivo.

 

La terapia è chirurgica o radiochirurgica. La radiochirurgia è in costante progresso. Alcuni tumori (come i linfomi, i meningiomi, i neurinomi) rispondono bene alla radioterapia, che è però molto dannosa sul tessuto nervoso sano, ove provoca un irreversibile processo necrotico (radionecrosi). Di qui l’importanza delle tecniche che concentrano la maggior parte delle radiazioni sul tessuto tumorale (radiochirurgia stereotassica, ora anche con l’utilizzazione di radiazioni gamma e l’ausilio di robot, come nelle ultime versioni del “gamma-knife”). Da evitare invece, anche nelle metastasi multiple, la radioterapia diffusa all’intero cranio, che allunga la sopravvivenza a prezzo di pessime qualità residue di vita. La chemioterapia, anche nelle versioni più recenti e sofisticate (cisplatino, carmustina, lomustina, temozolomide in varie associazioni), è di scarsa e transitoria efficacia e attende ulteriori progressi. Utile per alleviare i sintomi è la terapia dell’edema cerebrale e della ipertensione endocranica (corticosteroidi, diuretici e agenti iperosmolari, che sottraggono liquidi ai tessuti), volta a ridurre la pressione all’interno del cranio.

 

Per i tumori spinali vedi il capitolo sulle “Malattie del midollo spinale”.

 

Malattie infettive e infiammatorie

Il sistema nervoso è spesso sede di processi infiammatori, a livello delle guaine di rivestimento (meningiti), del parenchima encefalico (encefaliti) e del midollo (mieliti).

 

Le meningiti possono essere dovute a virus, batteri o funghi. La sindrome clinica è costituita da febbre, cefalea, rigidità nei movimenti della nuca, nausea, vomito e intolleranza alla luce (fotofobia). La diagnosi necessita di conferma con puntura lombare e esame del liquor, che consente anche di identificare o isolare l’agente infettivo responsabile della malattia.
Le forme virali mostrano di solito un quadro clinico ad andamento benigno. Gli agenti più comuni sono i virus della parotite, della mononucleosi infettiva, del morbillo, della rosolia e della varicella-zoster, ad andamento sporadico; nonchè gli enterovirus coxsackie, ECHO e polio (quest’ultimo scomparso nei paesi ove si pratica la vaccinazione), ad andamento epidemico. Possono comparire sonnolenza o un lieve stato confusionale con irritabilità, mentre raramente si osservano segni focali. Il liquor appare limpido, con uno scarso numero di cellule infiammatorie di tipo linfocitario e scarso aumento delle proteine, mentre il contenuto di glucosio è normale. Non sono indicati gli antibiotici ma solo preparati contro la febbre.
Le meningiti batteriche sono assai più gravi. Gli agenti più frequenti sono la Neisseria meningitidis (meningococco, ad andamento epidemico e a rischio in soggetti sani); lo pneumococco, l’hemophilus, la listeria, lo stafilococco, l’Escherichia coli, ad andamento sporadico e “opportunistico”, cioè elettivi per soggetti con minori difese immunitarie. La Neisseria colpisce soprattutto adolescenti e giovani, l‘hemophilus bambini e anziani defedati. La meningite batterica è una malattia grave, sia per la fase acuta, che mostra un inizio brutale con una sindrome meningea florida, stato confusionale e crisi convulsive, sia per gli esiti (possono residuare sordità, crisi epilettiche, segni focali, deficit cognitivi). Il liquor ha un aspetto torbido o francamente purulento ed è ricco di cellule infiammatorie di tipo neutrofilo e di proteine, mentre il glucosio è diminuito. La terapia è una emergenza medica, perché se non trattata la malattia è mortale; è basata sugli antibiotici, a dosi piene e per via venosa; va mirata sull’agente infettivo, identificato nel liquor. Il micobatterio tubercolare provoca una meningite subacuta con aumento dei linfociti e diminuzione del glucosio nel liquor, un tempo costantemente mortale ma ancora oggi molto seria. Per lungo tempo quasi scomparsa, sta riemergendo sulla scia delle patologie da depressione immunitaria e per le cattive condizioni igieniche di alcuni settori sociali.
Le meningiti da funghi (criptococco, cladosporium, rhizopus, absidia, mucor) ad andamento cronico, sono sempre molto gravi, poichè colpiscono soggetti con depressioni immunitarie primitive o secondarie.

 

Le encefaliti possono essere virali, batteriche, da protozoi, di natura immunoallergica. Molti virus possono localizzarsi nel cervello, trasportati da zanzare o zecche, ma nei nostri paesi il più frequente è il banale virus herpes simplex, responsabile del comunissimo herpes cutaneo, che occasionalmente può migrare nel cervello ove provoca gravi lesioni necrotiche dei lobi temporali, con esiti catastrofici per la memoria. Si manifesta in forma acuta con stato confusionale, disturbi del comportamento e crisi convulsive. È uno dei pochi virus per i quali esiste un farmaco specifico ed efficace (aciclovir) che va somministrato molto precocemente. In centro Europa e in Italia, in forma sporadica o epidemica primaverile-estiva, si può osservare la encefalite da zecche, trasmessa dalla zecca Ixodes ricinus e da un flavivirus a RNA, che si manifesta con cefalea, astenia, stato confusionale transitorio, segni extrapiramidali, a buona prognosi.

 

I batteri penetrano nell’encefalo e provocano ascessi cerebrali per contiguità da infezioni dei seni paranasali, per via ematica in soggetti con cardiopatie valvolari, o dopo traumi cranici con ferite penetranti. La sindrome, acuta o subacuta, decorre con cefalea, confusione, segni focali e meningei. Il trattamento antibiotico deve essere non raramente integrato dalla chirurgia. Fra i protozoi il più diffuso è il plasmodium falciparum, responsabile della malaria cerebrale, uno dei maggiori “killer” mondiali. Trasmessa dalla zanzara Anopheles,  è stata debellata nel nostro paese dal DDT, ma è tutt’ora un flagello nei paesi tropicali e subtropicali. Ricompare inaspettata vicino agli aereoporti o al ritorno da viaggi da paesi ove la malattia è endemica, e provoca stati confusionali febbrili con convulsioni, a decorso acuto e ingravescente. La diagnosi si effettua evidenziando il parassita nello striscio di sangue, ricerca che va spesso ripetuta. Va trattata prontamente con antimalarici, a cominciare dal cloridrato di chinino in vena, meflochina, doxiciclina.

 

Le encefaliti immunoallergiche colpiscono soggetti che hanno subito infezioni virali come il morbillo o hanno praticato vaccinazioni come l’antirabbica. È una patologia autoimmune, in cui si formano anticorpi che “sbagliano bersaglio” e invece di aggredire il virus attaccano il proprio sistema nervoso. Compare dopo 2-3 settimane e provoca lesioni multiple della mielina, evidenziate dalla risonanza magnetica, e segni neurologici importanti encefalici e midollari (convulsioni, atassia, diplopia, paraparesi). Va trattata con steroidi.

 

La sclerosi multipla, una delle più comuni malattie neurologiche, è anch’essa una patologia autoimmunitaria, dovuta all’attacco – da parte di linfociti e anticorpi – della guaina mielinica che circonda le fibre nervose del sistema nervoso centrale e degli stessi assoni, sia nell’encefalo che nel midollo. Provoca all’inizio lesioni infiammatorie della mielina bene evidenziate dalla risonanza magnetica, disseminate nello spazio del sistema nervoso centrale e nel tempo, iniziando dall’età giovanile. Con il passare degli anni possono comparire disturbi progressivi che rappresentano l’accumulo del danno delle successive lesioni, ma in alcuni casi la malattia assume fino dall’inizio un andamento progressivo, cui si accompagna un processo atrofico del tessuto nervoso. Si presenta perciò in tre forme, la forma ricorrente-remittente che si manifesta con disturbi neurologici transitori e ricorrenti (per esempio calo della vista, visione doppia, formicolii a un braccio, spasticità alle gambe, ecc.); la forma secondariamente progressiva in cui piccoli e successivi segni neurologici si accumulano nel tempo realizzando deficit stabili in lento peggioramento; e la forma primitivamente progressiva, in cui fino dall’inizio la malattia assume un andamento lentamente peggiorativo. In circa un terzo dei pazienti l’andamento complessivo è benigno; paradossalmente le forme a inizio tardivo (dopo i 40-50 anni) hanno un andamento più grave. La terapia è basata sui trattamenti immuno-modulanti (cortisone nelle fasi acute; azatioprina, interferone, copolimero o natalizumab come trattamento cronico) e immunosoppressivi (mitoxantrone). Riduce il numero dei nuovi focolai nella forma ricorrente-remittente ma è inefficace nelle forme progressive.

 

Infine le cellule cerebrali sono il bersaglio dei “prioni”, proteine dotate di potere infettante che si diffondono a macchia d’olio nel tessuto nervoso. Provocano demenze a rapido sviluppo accompagnate da pesanti segni neurologici piramidali, extrapiramidali e cerebellari. La forma più comune (malattia di Creutzfeldt-Jakob) è sporadica. Vi sono forme simili che possono essere trasmesse direttamente da trapianti di tessuto o da strumenti neurochirurgici, forme a trasmissione enterale attraverso la catena alimentare, come nel caso divenuto oramai noto (anche se rarissimo) delle infezioni da “mucca pazza”. Vi sono anche forme familiari, come la malattia di Gerstmann-Straussler-Schinker e la insonnia fatale familiare, descritta in una famiglia italiana.

 

Traumi cranici

Costituiscono nei paesi industrializzati una delle maggiori cause di mortalità e disabilità.
Al momento dell’impatto una forza viene applicata al cranio e si trasmette alla massa encefalica in esso contenuta. Non è rilevante se il cranio urta contro un ostacolo o se un oggetto urta il cranio, mentre è importante l’entità della energia cinetica, la direzione della forza – lineare o rotatoria –, e la forma della superficie d’urto – appuntita o piana. L’impatto determina nel capo e nella massa encefalica una improvvisa accelerazione. A causa della conformazione fisica dell’encefalo (un asse centrale costituito da tronco e gangli della base, e appendici periferiche costituite dagli emisferi cerebrali) le porzioni periferiche dell’encefalo vengono maggiormente dislocate di quelle assiali, e le fibre nervose che fuoriescono a raggiera dall’asse centrale vengono improvvisamente stirate o strappate. Lo stiramento delle fibre è tanto maggiore quando maggiore è la forza di impatto e la componente rotatoria che la accelerazione imprime alla massa encefalica. Lo stiramento determina una improvvisa paralisi funzionale transitoria delle fibre, esemplificata dal “knock-out” di un incontro di pugilato, che regredisce entro i famosi 10 secondi (non a caso il pugno del knock-out è il “gancio”, che fa ruotare bruscamente la testa sull’asse costituito dalle vertebre cervicali). Se la forza d’urto è importante le fibre vengono strappate e il danno risulta irreversibile (danno assonale diffuso). Il processo isola la corteccia dalle sue connessioni ed è alla base del coma postraumatico, che compare al momento dell’impatto e si protrae nelle ore e giorni successivi in rapporto alla gravità del danno assonale. L’entità del trauma può perciò in linea generale essere valutata in base alla durata del coma postraumatico, e la durata della iniziale perdita di coscienza fornisce i la misura più immediata della gravità dell’impatto e del rischio di complicanze (traumi lievi non superano i 30 minuti, e traumi medi le 24 ore di disturbo di coscienza).
Il coma può regredire totalmente o persistere, stabilizzandosi sfociando nel giro di giorni o settimane nello stato vegetativo, una condizione in cui il soggetto tiene in maniera intermittente gli occhi aperti, respira spontaneamente ma appare parzialmente e o totalmente segregato da sé e dall’ambiente. Lo stato vegetativo viene definito persistente se si protrae per un mese dopo il trauma, e considerato permanente (cioè senza ragionevoli possibilità di recupero) dopo un anno senza miglioramenti neurologici.
Inoltre, al momento del trauma il cervello urta contro le pareti ossee della scatola cranica, nel punto di impatto e dal lato opposto nonché in corrispondenza dei poli frontali e temporali e subisce un danno contusivo a serie di contusioni, come un dito percosso da un martello. Il brusco movimento del cervello può strappare i vasi che lo ancorano alle pareti interne del cranio, determinando versamenti di sangue fra cranio e meningi (ematomi epidurali, di solito di origine arteriosa), fra i foglietti meningei (ematomi sottodurali, di solito di origine venosa e a evoluzione più lenta e subdola) o entro il cervello (ematomi intracerebrali, forieri di cicatrici gliali residue). Infine, in rapporto entità della forza e alla conformazione della superficie d’urto, si possono determinare ferite del cuoio capelluto e fratture craniche, eventualmente con penetrazione nel parenchima cerebrale di frammenti ossei e materiale estraneo (“traumi aperti”) con il rischio di contaminazioni infettive e formazione di ascessi che complicano il quadro.

 

È fondamentale prevenire il danno traumatico decelerando l’impatto mediante l’uso – sulla strada – di casco, cinture di sicurezza e poggiatesta, e – sul lavoro e nello sport – di misure specifiche la cui osservanza va verificata e imposta. Il soggetto che ha subito un trauma cranico con perdita di coscienza superiore a 30 minuti va sottoposto a esame TC e tenuto in osservazione; nei pazienti a rischio emorragico (per esempio in trattamento anticoagulante) la TC va effettuata anche dopo traumi lievi. L’osservazione è diretta a stabilire la necessità di un intervento chirurgico per rimuovere gli ematomi, intervento che deve essere effettuato d’urgenza nei versamenti a rapido sviluppo, come spesso accade negli ematomi epidurali.

 

Malattie degenerative

Questo tipo di processo morboso costituisce una poco invidiabile prerogativa del sistema nervoso, che ha contribuito maggiormente allo stereotipo del neurologo (“belle diagnosi, nessuna terapia”). Il processo degenerativo è caratterizzato da una “atrofia primaria” (cioè non riportabile a altre patologie) che conduce al raggrinzamento e alla scomparsa del neurone e della fibra nervosa che da esso dipende. Il processo, assimilabile alla senescenza e morte cellulare (“apoptosi”) iscritta nel codice genetico di ogni sistema biologico cellulare, è spesso familiare e trasmesso geneticamente. Il danno colpisce selettivamente uno o più sistemi neuronali di solito collegati funzionalmente e determina una lenta e progressiva perdita di funzione, che riguarda i compiti specifici del sistema neuronale coinvolto. I sistemi neuronali sono innumerevoli, ed è sufficiente che il processo degenerativo sposti leggermente il fulcro della sua azione da un sistema a un altro, o all’interno della stesso sistema da un componente anatomo-funzionale all’altro per cambiare la espressione clinica della malattia. Il ventaglio delle malattie degenerative è perciò vastissimo, e tale da mettere non raramente in imbarazzo anche il neurologo esperto. Una diagnosi precisa si è invece dimostrata fondamentale, non solo per la prognosi e la profilassi genetica ma per indirizzare la ricerca.

 

Le descrizioni cliniche dei neurologi a partire dai primi decenni del 1800 hanno isolato una serie di forme che spesso potano il nome del clinico che le ha identificate e che sono state confermate dalle nuove tecnologie diagnostiche e dagli studi di genetica molecolare. In alcune patologia di aspetto degenerativo è stata dimostrata la origine metabolica e hanno cambiato capitolo (per esempio la malattia di Wilson, nella quale è sto dimostrato un alterato metabolismo del rame); altre, come alcune demenze a rapida progressione, hanno mostrato un’origine infettiva (da peculiari proteine, i prioni). Della maggior parte si è confermata l’origine degenerativa, e in molte si è cominciato a chiarire il meccanismo patogenetico, spesso legato a una alterata conformazione di una proteina cellulare, che non ne consente la utilizzazione o l’eliminazione, accumulandosi nel neurone e attivandone la morte. Il processo degenerativo lascia spesso dei residui sotto foema di aggregati proteici come le placche amiloidi nella malattia di Alzheimer o i corpi di Lewy nella malattia di Parkinson. I successi terapeutici riguardano per ora il miglioramento di alcuni sintomi, poiché la progressione del processo degenerativo non è stata fino ad ora scalfita.

 

Le forme più comuni sono la malattia di Alzheimer, la demenza fronto-temporale, la malattia di Parkinson e i parkinsonismi, la sclerosi laterale amiotrofica e forme affini, le atassie spinocerebellari e la malattia di Charcot-Marie-Tooth. Colpiscono maggiormente l’età adulta e senile. La maggior parte sono sporadiche, ma si vanno identificando in ogni gruppo forme ereditarie, che forniscono molte informazioni patogenetiche.

 

La malattia di Alzheimer (più correttamente di Alzheimer-Perusini) compare dopo i 50 anni e provoca una perdita neuronale nella corteccia cerebrale associativa che prevale nei lobi parietale e temporale, con accumulo della proteina amiloide. Determina una demenza a esordio subdolo e a decorso progressivo. Il paziente perde la memoria sia per gli eventi recenti che antichi (ben presto non ricorda neppure la sua data di nascita), compie errori nelle attività abituali, dimentica le parole, non sa più orientarsi nello spazio fuori casa e poi nella sua stessa abitazione, non riconosce e non sa più usare gli oggetti né organizzare nuove attività motorie. La morte avviene nel giro di 3-10 anni, con un quadro di decadimento anche fisico. Alcuni farmaci che potenziano i circuiti colinergici migliorano transitoriamente l’efficienza mentale.

 

La demenza fronto-temporale, quadro meno uniforme e meno frequente della malattia di Alzheimer, determina una perdita neuronale limitata alla corteccia associativa di questi due lobi, con accumulo di proteina tau. I disturbi clinici riguardano il comportamento più che la memoria. Il paziente mostra disinibizione, comportamenti ripetitivi, euforia o apatia, impulsività, condotte inappropriate o antisociali, richieste di sesso e consumo di cibo in eccesso. In una variante sono colpiti precocemente i meccanismi della parola ed il linguaggio si impoverisce, diventa scheletrico fino a un gergo incomprensibile. Gli psicofarmaci possono correggere o frenare molti disturbi comportamentali.

 

La malattia di Parkinson compromette invece il sistema di regolazione del movimento. La malattia è sporadica e inizia dopo i 50-60 anni, ma vi sono forme familiari sia dominanti che recessive. Più frequenti quando l’esordio dei sintomi è giovanile. La degenerazione colpisce molti nuclei contenenti cellule pigmentate, ma i segni clinici principali derivano dalla perdita neuronale nella sostanza nera del mesencefalo, struttura che produce dopamina e, attraverso la attivazione dei circuiti dei gangli della base, rinforza la attività della corteccia cerebrale motoria. Nei neuroni residui si accumula la proteina alfa-sinucleina che costituisce degli aggregati denominati corpi di Lewy. La malattia si manifesta con rallentamento dei movimenti volontari (abbottonarsi la camicia, allacciarsi le scarpe, camminare, alzarsi da una sedia, ecc.), perdita dei movimenti automatici (come il battito involontario delle palpebre, l’espressività mimica, l’oscillazione delle braccia durante la marcia, gli atti involontari di deglutizione della saliva), rigidità muscolare, tremore a riposo. L’esordio dei sintomi è di solito asimmetrico. Può essere curata somministrando precursori della dopamina (L-Dopa), oppure sostanze che rinforzano o sostituiscono l’azione della dopamina (farmaci dopaminergici). La terapia risulta efficace per molti anni, ma è nelle fasi avanzate complicata da improvvise cadute di effetto e dalla comparsa di movimenti involontari che disturbano l’attività motoria fisiologica. Sono possibili interventi chirurgici (microlesioni o impianto di stimolatori nelle vie extrapiramidali) che integrano l’azione dei farmaci. I trapianti di cellule produttrici di dopamina hanno fallito.

 

Oltre alla malattia di Parkinson vi sono alcuni quadri similari, denominati parkinsonismi, che coinvolgono oltre alla sostanza nera sistemi neuronali aggiuntivi e provocano disturbi più complessi. Le più comuni sono la paralisi sopranucleare progressiva, che coinvolge i movimenti di sguardo e l’attività cognitiva; la atrofia sistemica multipla, che coinvolge l’equilibrio e la regolazione vegetativa; la degenerazione corticobasale, che coinvolge l’attività cognitiva e l’organizzazione motoria dell’arto superiore di un solo lato.

 

La sclerosi laterale amiotrofica colpisce invece il sistema di produzione del movimento. Nella maggior parte dei casi è sporadica, ma vi sono forme familiari. La perdita neuronale riguarda il fascio piramidale che trasporta i comandi motori dalla corteccia cerebrale al midollo, e cellule dei nuclei motori dei nervi cranici e delle corna anteriori del midollo, che comandano la contrazione muscolare. Determina una perdita di forza con spasticità e atrofia muscolare, che inizia di solito in maniera simmetrica nei muscoli delle mani, coinvolge i muscoli degli arti inferiori e compromette la produzione della parola e i meccanismi della deglutizione e della respirazione. I muscoli mostrano piccole contrazioni spontanee di gruppi di fibre muscolari comandate da un singolo neurone, che si evidenziano come guizzi del muscolo (fascicolazioni). Il decorso è più rapido che nelle altre patologie degenerative, ma vi sono forme limitate ai motoneuroni piramidali (sclerosi laterale primaria) o dei nuclei motori (atrofia muscolare bulbare o spinale) che decorrono più lentamente. Non vi sono per ora terapie efficaci anche se un farmaco, il riluzolo, rallenta lievemente la progressione. Numerosi interventi possono alleviare i sintomi e i pazienti vanno seguiti da strutture dedicate.

 

Le atrofie spinocerebellari colpiscono il cervelletto e sistemi collegati. Sono un gruppo molto articolato di forme, che a differenza della malattie degenerative appena discusse sono quasi sempre ereditarie. Provocano disturbi della parola, dell’equilibrio e della marcia (atassia), a decorso lento. La malattia di Friedreich, a eredità recessiva, inizia fra i 5 e i 15 anni e si accompagna a deformazione dei piedi (piede cavo) perdita della sensibilità agli arti inferiori, miocardiopatia, talora diabete. Le atrofie spinocerebellari a ereditarietà dominante esordiscono nell’adolescenza o nell’età adulta e mostrano una serie di sintomi associati molto variabili (corea, spasticità, demenza, paralisi dei movimenti oculari, degenerazione retinica, segni, etc) che rendono necessaria la identificazione della anomalia genetica. Sono stati identificati molti geni e molte proteine da essi codificate, responsabili delle numerose varianti della malattia, ma per ora nessuna terapia efficace.

 

La malattia di Charcot-Marie-Tooth o neuropatia ereditaria sensori-motoria colpisce cellule e fibre sensitive e motorie dei nervi periferici, soprattutto degli arti inferiori, e secondariamente i fasci sensitivi del midollo spinale. La ereditarietà è nella maggior parte dei casi dominante. Provoca disturbi sensitivi e atrofia muscolare ad andamento lentissimo, e consente lunghe sopravvivenze. L’atrofia muscolare si arresta tipicamente al terzo medio delle cosce e al gomito. Anche in questa malattia vi è piede cavo. Vi sono differenti forme, identificabili in base alla velocità di conduzione del nervo periferico, a seconda che il processo degenerativo coinvolga maggiormente la componente mielinica o gli assoni del nervo. Non abbiamo terapie risolutive.

 

Malattie metaboliche

Sono il prodotto di errori nella trasformazione chimica di un costituente del tessuto nervoso. Il difetto può essere congenito e trasmesso ereditariamente o essere acquisito.

 

Le malattie metaboliche congenite sono un mare infinito. Dipendono da mutazioni del gene che presiede a un enzima o ad altra proteina essenziale. La trasmissione è ereditaria, di solito in forma autosomica recessiva e trasmessa dai due genitori attraverso il DNA nucleare, oppure trasmesse dalla madre attraverso il DNA dei mitocondri.
La sintomatologia esordisce usualmente nell’infanzia (dal lattante alla prima infanzia) e assume un andamento progressivo. Spesso errori di differente natura producono sindromi cliniche simili (sindromi piramidali, extrapiramidali, epilessia, e quasi sempre arresto dello sviluppo o regressione mentale), e la precisazione del difetto è affidata agli esami di laboratorio, molto specifici e effettuati nei servizi neurologici i dedicati alle “malattie rare”. Le categorie principali sono le aminoacidopatie (la più comune è la fenilchetonuria), le leucodistrofie in cui è alterato la composizione della mielina (ad esempio la leucodistrofia metacromatica), le malattie da accumulo lisosomiale in cui un prodotto del metabolismo cellulare non viene degradato e riempie le cellule nervose e non solo (ad esempio la gangliosidosi che presenta anche ingrandimento di milza e fegato, e le mucopolisaccaridosi che mostrano alterazioni scheletriche), le epilessie miocloniche progressive (una delle quali, a ereditarietà mitocondriale, colpisce anche le fibre del muscolo che mostrano un caratteristico aspetto sfrangiato nella biopsia). Diete selettive (per es. nella fenilchetonuria) o la somministrazione dell’enzima mancante (come nella malattia di Gaucher) sono utilizzabili in alcuni difetti metabolici, ma in generale queste malattie presentano poche prospettive terapeutiche. La terapia genica (cioè l’introduzione del gene mancante) è la frontiera sulla quale vanno scontrandosi le ricerche più moderne

 

La malattia di Wilson esordisce in età adolescenziale o nell’adulto. È presente in Italia soprattutto in Sardegna, ed è caratterizzata da un difetto di una proteina deputata al trasporto del rame. Il metallo si accumula nei tessuti, soprattutto nel fegato, nella cornea e nel cervello. Provoca cirrosi epatica, un particolare anello colorato nella cornea, segni extrapiramidali (atetosi, distonia e tremore) e regressione mentale con sintomi schizofreniformi. Può essere curata utilizzando sostanze che favoriscono la progressiva eliminazione di rame dai tessuti (penicillamina, trientene, zinco acetato), associate a una dieta povera di rame; la terapia va proseguita tutta la vita ma se è iniziata precocemente impedisce il deterioramento neurologico.

 

Le malattie metaboliche acquisite derivano da mancanza di ossigeno o glucosio nel sangue, intossicazioni endogene, tossici esogeni o condizioni carenziali.
La mancanza di ossigeno (anossia) provoca nel sistema nervoso; più che negli altri organi, danni gravissimi. Le cellule nervose traggono infatti l’energia che le fa funzionare e sopravvivere dal continuo apporto di ossigeno e glucosio. Al momento del parto, un ostacolo alla circolazione placentare o i ritardo nel passaggio dalla circolazione placentare alla respirazione per via aerea può determinare nel neonato una anossia fugace, apparentemente senza esiti ma responsabile di piccoli focolai necrotici, che prediligono i lobi temporali e l’ippocampo e danno origine, anche a distanza di molti anni, a crisi epilettiche ricorrenti. Se la fase anossica è più grave e dura a lungo i danni sono subito evidenti sotto forma di ritardo dello aviluppo intellettivo e motorio. Dopo la nascita, la anossia può verificarsi per caduta della pressione di ossigeno nell’aria ambientale, per ostruzione delle vie aeree, per paralisi dei muscoli respiratori, o per intossicazione da ossido di carbonio, ecc. Il paziente scivola rapidamente in coma, dal quale fuoriesce dopo periodi più o meno lunghi e con esiti di differente gravità a seconda della durata della anossia. Nei casi gravi, la necrosi del tessuto cerebrale può essere così estesa da impedire la ripresa di una vita intellettiva e portare allo stato vegetativo permanente. L’esperienza ha mostrato che, a differenza dell’analoga condizione consecutiva a trauma cranico, la condizione di irreversibilità dello stato vegetativo appare consolidata dopo sei mesi senza miglioramenti neurologici.

L’ipoglicemia ha effetti simili alla anossia, ma è più rara. L’evento più comune è una eccessiva dose di farmaci ipoglicemizzanti senza adeguato apporto alimentare di zucchero durante il trattamento antidiabetico. Si manifesta usualmente con disturbi transitori della coscienza.

 

Fra le intossicazioni endogene una forma comune è l’encefalopatia da insufficienza epatica, che si manifesta con tremori ad ampie scosse delle mani e con disturbi della coscienza, fino al coma profondo e irreversibile. Compare nelle epatopatie acute (epatiti, avvelenamento da funghi) e croniche (cirrosi epatica).
L’uremia, nel corso di insufficienza renale, provoca disturbi acuti dello stato di coscienza o deficit progressivo della attenzione e del rendimento mentale, che seguono l’andamento del danno renale.

 

Fra le forme da tossici esogeni dominano l’alcol e i narcotici. La condizione più frequente è l’intossicazione alcolica. Quando l’alcool nel sangue supera i 30-50 mg/100 ml compare la classica ubriachezza, e in personalità predisposte vengono attivati comportamenti aggressivi (ubriachezza patologica). A livelli maggiori la coscienza è progressivamente depressa, fino all’arresto del respiro che sopravviene con livelli di alcool di 400-500 mg/100 ml. Nell’alcolismo cronico, oltre al danno epatico con cirrosi, compaiono deterioramento mentale progressivo fino alla demenza, idee deliranti di gelosia e persecutorie, disturbi della memoria. Un quadro acuto, denominato sindrome di Wernicke, si manifesta con stato confusionale agitato, atassia, deficit della motilità oculare, amnesia anterograda e retrograda. Molti di questi sintomi derivano dalla carenza vitaminica secondaria alla gastrite alcolica, e migliorano con la somministrazione di vitamina B1 (tiamina).

 

I narcotici (morfina, eroina, metadone, ecc.) deprimono il respiro e provocano morti inaspettate quando, dopo una fase di astinenza, il soggetto riassume improvvisamente la dose abituale, o per il variabile contenuto di sostanza attiva nelle miscele del commercio illegale. È questa la causa più frequente di “overdose”, che richiederebbe un atteggiamento meno repressivo e miope verso i consumatori abituali o occasionali.

 

Malattie malformative

La causa delle malformazioni può essere genetica o ambientale, e gli agenti responsabili sono radiazioni, farmaci, contaminanti ambientali, alterazioni placentari, infezioni, alcol e fumo materni, ecc. La maggior parte delle sindromi malformative coinvolge il sistema nervoso, il cui sviluppo inizia nei primi giorni di vita e termina ben oltre la nascita, con la mielinizzazione dei fasci di fibre che si conclude verso i 20 anni. Le principali categorie di malformazioni consistono nei difetti di chiusura del tubo neurale, nelle anomalie delle circonvoluzioni, nelle facomatosi e nelle aberrazioni cromosomiche.

 

Il tubo neurale può presentarsi aperto nella porzione caudale (mielomeningocele) o craniale (encefalomeningocele), oppure essere affetto da malformazioni occulte (idrocefalo, cisti della fossa posteriore); la malformazione può interessare il midollo, ove si forma una cavità centrale che interrompe i fasci della sensibilità dolorifica (siringomielia).
Le anomalie delle circonvoluzioni (displasie corticali focali) sono divenute riconoscibili da quando la risonanza magnetica ne ha consentito la identificazione in vivo. Sono fra le maggiori responsabili di epilessia farmacoresistente e quando sono estese causano ritardo mentale. Vanno ricercate con risonanza magnetica mirata, a strato sottile e con sequenze specifiche.
Le facomatosi sono collezioni di cellule abnormemente organizzate che formano, in vari organi, ammassi dotati di potenzialità maligna. Le più comuni sono la neurofibromatosi, responsabile di tumori cutanei, dei nervi periferici e del nervo ottico; la sclerosi tuberosa, che provoca accumuli gliali calcificati nel cervello e determina epilessia e ritardo mentale; e le angiomatosi, che consistono in ammassi di vasi malformati.
L’aberrazione cromosomica più frequente è la sindrome di Down (1 ogni 1000 nascite), in cui il cromosoma 21 è triplicato (trisomia 21). Oltre a un particolare aspetto del viso vi sono ritardo mentale di varia entità, anomalie cardiache e gastrointestinali. La sindrome di Edwards o trisomia 18 (1 ogni 3000 nascite) si manifesta con malformazioni pluriorgano, microcefalia, ipoplasia della mandibola, aumento della distanza fra gli occhi, ritardo mentale; la sindrome di Patau o trisomia 13, rara (1 ogni 25.000 nascite), con malformazioni del tubo neurale, microcefali, polidattilia, ritardo mentale. L’espansione di parte del cromosoma X provoca nel maschio ritardo mentale e ingrandimento dei testicoli (sindrome X fragile).

 

Molte condizioni malformative determinano la morte in utero del feto. La diagnosi prenatale e l’aborto terapeutico sono possibili e garantiti dalla legge entro il terzo mese di gravidanza.

 

Epilessia

(L’argomento epilessia è trattato estesamente in vari capitoli del sito e se ne dà qui un breve sommario)

 

È un disturbo accessuale delle funzioni della corteccia cerebrale che si manifesta con crisi ricorrenti di breve durata, sostenute dalla scarica parossistica di una popolazione di neuroni. Si distinguono due grandi categorie: le crisi parziali, in cui la scarica prende avvio da una ristretta porzione della corteccia, e le crisi generalizzate, in cui la scarica coinvolge simultaneamente gran parte della corteccia cerebrale dei due lati. Anche quando l’inizio è localizzato, la scarica epilettica non rimane confinata nel punto di origine, ma seguendo la rete neuronale esistente si propaga ad altre aree cerebrali e talora diffonde secondariamente a tutto l’encefalo.
L’espressione clinica della scarica riproduce, in maniera caricaturale, le funzioni dei neuroni cerebrali invasi dalla attività parossistica: movimenti se la scarica interessa le aree motorie, sensazioni abnormi se sono interessati i circuiti sensitivi, attività vegetative se sono interessati i centri autonomici. Inoltre, la scarica interferisce con la normale attività neuronale e può bloccare transitoriamente la motilità in corso o la parola. Spesso vi è disturbo di coscienza, che deriva dal coinvolgimento delle aree corticali associative o delle strutture reticolari che mantengono la veglia. Le crisi assumono forme assai differenti a seconda della sede di origine e di propagazione della attività parossistica.
Le crisi parziali si dividono in semplici (senza disturbo di coscienza) e complesse (con perdita del contatto con l’ambiente e spesso comportamenti motori automatici).
Le crisi generalizzate hanno in comune la bilateralità delle manifestazioni cliniche, di solito costituite da sospensione della coscienza (assenze) e scosse muscolari (mioclonie) e, nell’evento più importante (crisi convulsiva o di “grande male”) ambedue le serie di sintomi (perdita di coscienza e convulsioni tonico-cloniche). Dopo una crisi convulsiva il soggetto rimane in coma per parecchi minuti (coma postaccessuale). Le crisi generalizzate convulsive possono fare seguito ad una crisi parziale.

 

Le cause dell’epilessia sono moltissime, e in pratica tutte le lesioni che coinvolgono la corteccia cerebrale possono dare origine a crisi epilettiche. Le condizioni più comuni sono le lesioni anossiche nel corso di parti difficili, le displasie corticali, i focolai infiammatori meningo-encefalici, le cicatrici posttraumatiche, i tumori a lento sviluppo, le lesioni vascolari. In alcune forme di crisi parziali e in molte crisi generalizzate non vi si riesce a dimostrare alcuna lesione, e le crisi possono derivare da una tendenza costituzionale, talora trasmessa ereditariamente (epilessie idiopatiche, localizzate e generalizzate) ma anche da lesioni che le nostre tecniche diagnostiche non sono ancora in grado di rilevare (epilessie criptogeniche).

 

La diagnosi differenziale principale è verso le sincopi, condizioni in cui il cervello subisce un improvviso arresto funzionale a causa della caduta subitanea della pressione arteriosa, per una eccessiva reattività vegetativa (sincopi vegetative, nei giovani) o per un disturbo del ritmo cardiaco (sincopi cardiogene, nel soggetto adulto o anziano) o una disfunzione del sistema vegetativo (sincopi disautonomiche).

 

Il trattamento dell’epilessia è basato sull’uso di farmaci che deprimono l’eccitabilità del tessuto nervoso senza modificarne i ritmi normali. Vanno assunti per lunghi periodi e spesso per tutta la vita. In pazienti selezionati si può asportare chirurgicamente la zona cerebrale che dà avvio alla crisi.

 

Sindromi dolorose

In generale, il dolore può derivare dai recettori specifici posti nei tessuti per segnalare situazioni di danno potenziale (dolore nocicettivo) come per esempio il dolore “fisiologico” che accompagna una frattura ossea, la colica renale o un’affezione dentale, ma anche il dolore dell’emicrania; oppure, il dolore può essere provocato dalla attivazione diretta delle vie che trasportano le sensazioni dolorifiche (dolore neurogeno).

 

Le condizioni morbose dolorose più frequenti nella pratica neurologica sono le cefalee primitive, la cefalea tensiva, le nevralgie e il dolore lombare.
Le cefalee primitive interessano più del 10% della popolazione adulta, e dipendono da un’alterata regolazione neuroumorale del calibro delle arterie del capo. Il dolore deriva dalla stimolazione dei recettori dolorifici dei vasi. Può essere unilaterale o bilaterale, e prende sempre il nome di emicrania. È un dolore pulsante, che si accompagna a nausea e talora vomito, e a intolleranza a rumori, luci e odori intensi (fono-, foto- e osmo-fobia). Dura parecchie ore e prevale usualmente nella metà anteriore del capo. Può comparire senza segnali premonitori (emicrania senza aura) o essere preceduto da fenomeni neurologici focali (emicrania con aura). In questi pazienti non raramente l’aura emicranica compare in maniera isolata. L’aura è di natura di natura oligoemica, e l’evento più comune è un disturbo transitorio del campo visivo (“scotoma scintillante”). Il dolore della cefalea primitiva risponde agli antidolorifici non steroidei e agli agonisti serotoninergici (triptani).

 

La cefalea tensiva è un dolore sordo, paragonabile a un peso o un cerchio che stringe, bilaterale, non pulsante e non accompagnato da vomito né intolleranza agli stimoli sensitivi, di lunga durata (da un’ora a parecchi giorni) e ricorrente. Anche questo è un dolore nocicettivo da attivazione dei recettori dolorifici vasali e muscolari del capo. Si accompagna spesso a stati ansioso-depressivi e può costituire un vero equivalente depressivo. Può migliorare con la terapia psicofarmacologica.

 

Nelle nevralgie invece il dolore è di origine neurogena e deriva direttamente dalla attivazione delle fibre dolorifiche del nervo periferico. Il nervo più comunemente affetto è il trigemino (nevralgia del trigemino). Il dolore, brevissimo ma intenso, è limitato a una metà del viso, di solito nella zona inferiore, in corrispondenza della terza branca del nervo. Compare in età adulta o avanzata, e tende a recidivare. Si suppone vi sia una compressione da parte di rami arteriosi nel punto di ingresso del nervo nel tronco dell’encefalo. Necessita di terapie mediche con anticonvulsivi (carbamazepina, gabapentin, pregabalin) o di interventi micro-chirurgici (termocoagulazione, micro compressione o trattamento con glicerolo nel ganglio di Gasser). Se il dolore persiste e vi è una documentata e convincente compressione del nervo è giustificato l’intervento decompressivo nella fossa posteriore. La nevralgia post-herpetica segue la infezione da virus herpes zoster (il “fuoco di Sant’Antonio”) e compare nel territorio cutaneo sede della eruzione vescicolare (di solito il torace o l’addome). La terapia è analoga a quella della nevralgia trigeminale, ma il successo è meno sicuro.

 

Il dolore lombare è una delle più comuni cause di invalidità. La colonna lombare, ricca di articolazioni, sottoposta a carico e molto mobile, sviluppa facilmente artrosi. Il dolore può essere nocicettivo, cioè di origine locale e derivare dalle strutture osteolegamentose vertebrali, specie le articolazioni zigoapofisarie (lombaggine); oppure essere neurogeno, secondario alla compressione delle radici lombosacrali da parte di un’ernia discale. La sede più frequente di compressione sono delle radici che formano il nervo sciatico (5° lombare e 1° sacrale); il dolore è proiettato alla gamba e al piede (sciatica) e si accompagna spesso a deficit motorio del piede e ad abolizione del riflesso achilleo. Un’altra causa di compressione radicolare è la stenosi del canale lombare provocata dai processi artrosici (osteofiti, ipertrofia delle articolazioni zigoapofisarie, protrusioni e ernie discali); in questa condizione il dolore compare o aumenta quando il paziente si mette in piedi e cammina per un breve tratto (claudicatio radicolare). La terapia del dolore lombare richiede riposo, farmaci antidolorifici e trattamenti fisioterapici. La chirurgia è riservata ai casi di sicura compressione radicolare da parte di ernie discali o di documentata stenosi del canale, dimostrata dalle immagini neuro radiologiche (TC e risonanza magnetica) e confermata dall’esame elettroneurografico e elettromiografico.

 

Malattie del midollo spinale

Il midollo, che conserva l’organizzazione segmentale del tubo neurale primitivo, contiene fasci ascendenti (sensitivi) e discendenti (motori). Le lesioni segmentali provocano, ai livelli corrispondenti, paralisi con atrofia muscolare e una banda di ipoestesia e, nella porzione sottostante del corpo, perdita delle funzioni neurologiche, evento di notevole gravità clinica. Possono derivare da deficit circolatori (infarti midollari) localizzati usualmente a livello medio-toracico o lombare e secondari a aneurismi dell’aorta toracica che interrompono il flusso nelle arterie radicolari dirette al midollo. Un’altra frequente condizione sono le lesioni infiammatorie (mielite) isolate, o nell’ambito di una encefalomielite immunoallergica acuta disseminata (mieliti para- e post-infettive) o come manifestazione iniziale e tardiva della sclerosi multipla. La colonna spinale è sede di tumori che possono accrescersi all’esterno della dura madre, fra la meninge e le pareti ossee del canale spinale (tumori extradurali), come le metastasi e i sarcomi; fra dura madre e midollo (tumori intradurali), come i neurinomi e meningiomi; o infine all’interno del midollo (tumori intramidollari) come i gliomi e metastasi.

 

Le cause più frequenti sono però i danni traumatici del midollo per incidenti sul lavoro e motociclistici, soprattutto a livello cervicale. La colonna cervicale è un organo mobile e molto esposto, trattenuto dal tronco da un lato e stirato dalla massa del capo dall’altro, ed è facilmente soggetta a dislocazioni con compressione del midollo. Se vi è frattura vertebrale le schegge ossee comprimono e penetrano nella corda midollare.

 

Quando il midollo è compresso, il trattamento chirurgico va praticato con urgenza, poiché i danni midollari offrono minori possibilità di ricupero di quelli encefalici. Essenziale è la riabilitazione, che va praticata in centri dedicati, per favorire che la possibile ripresa spontanea avvenga in buone condizioni generali e di trofismo muscolare e cutaneo, e per istruire i pazienti su tutti i possibili accorgimenti atti ad  ovviare al deficit sensitivo e motorio. La rieducazione è fondamentale per il trattamento dei disturbi sfinterici e della erezione e per apprendere l’adattamento alle nuove strategie motorie che un danno stabile del midollo impone.

 

Malattie del nervo periferico

Le fibre periferiche (raccolte nelle radici, nei plessi e nei tronchi nervosi) raggiungono l’estrema periferia del tronco e degli arti e possono subire una serie di insulti (traumatici, circolatori, infettivi, tossico-metabolic e immunitari).
I sintomi dipendono dalla categoria di fibre colpite (sensitive, motorie o vegetative) e dalla distribuzione del danno, e consistono in perdita di forza e sensibilità, seguite da atrofia muscolare, parestesie, dolori e ipoestesia che può riguardare le sensibilità tattili e propriocettive o più raramente la sensibilità dolorifica e termica. Precoce e indicativa è l’abolizione dei riflessi.

 

Si distinguono: le mononeuropatie, in cui un solo tronco è leso (generalmente per traumi locali); le multineuropatie, in cui più nervi sono colpiti in maniera plurifocale, simultaneamente o in tempi successivi (come avviene in corso di vasculiti sistemiche come poliartrite nodosa e malattia di Churg-Strauss, e soprattutto nella lebbra, tutt’ora molto diffusa in India e Africa); e le polineuropatie, in cui il danno colpisce le fibra dei nervi in maniera sistemica (diabete, patologie infiammatorie autoimmuni, gammopatie, danni tossici da alcol e farmaci, sindromi paraneoplastiche).

 

Le mononeuropatie sono frequentemente di natura traumatica acuta, per lesioni dirette in ferite penetranti o in occasione di fratture ossee; o per compressioni subacute e croniche nei punti di passaggio di un nervo in canali osteotendinei (come nella ben nota compressione del nervo mediano nel tunnel carpale) o per usura ripetuta nel corso di attività che espongono il nervo a microtraumi (anche il semplice accavallamento delle gambe per il nervo peroneo alla testa del perone, l’abitudine al sonno profondo con il braccio sulla spalliera della sedia per il nervo radiale, o una attività sportiva ripetitiva come il tennis per il nervo ulnare al gomito).

 

Nelle polineuropatie i sintomi iniziano dalle fibre nervose più lunghe, e quindi alla periferia degli arti prima e soprattutto gli inferiori. I disturbi consistono in sensazioni fastidiose, dolori, perdita della sensibilità (che può riguardare le sensibilità tattili e propriocettive o più raramente la sensibilità dolorifica e termica) e deficit motorio con atrofia muscolare e abolizione dei riflessi (segno caratteristico di danno periferico). Le forme più frequenti sono le polineuropatie diabetiche e la poliradicoloneuropatia infiammatoria acuta (sindrome di Guillain-Barrè), che consegue a malattie virali e a un attacco immunitario cellulomediato diretto contro il nervo. Richiede una attenta sorveglianza poiché inizia dagli arti inferiori coinvolgendo anche i muscoli prossimali e può assumere un andamento ascendente fino alla paralisi dei muscoli respiratori. Più rari i disturbi vegetativi, che possono coinvolgere il controllo della vescica e, nel maschio, le funzioni sessuali. Viene trattata con steroidi, plasmaferesi o immunoglobuline. Le polineuropatie diabetiche assumono usualmente una distribuzione distale e simmetrica e provocano disturbi sensori-motori (le parestesie ai piedi e l’abolizione dei riflessi achillei sono pressoché costanti nei pazienti diabetici anche ben trattati). Può svilupparsi anche una neuropatia motoria prossimale (“amiotrofia neuralgica”) che colpisce il nervo femorale di un lato e provoca dolore alla coscia, seguito da deficit della flessione della coscia sul bacino e da scomparsa del riflesso rotuleo. La terapia consiste nella cura attenta del diabete.

 

Le neuropatie dei nervi cranici provocano a seconda del nervo interessato paralisi dei muscoli facciali, deficit dei movimenti oculari con visione doppia, deficit della fonazione e della deglutizione. L’evento più frequente è la paralisi periferica del nervo facciale (paralisi di Bell) probabilmente dovuta al virus herpes simplex, che provoca la abolizione dei movimenti mimici di metà del viso, con caduta dell’angolo labiale e impossibilità a chiudere l’occhio del lato affetto. Regredisce spontaneamente nel 90% dei casi, ma nei casi di guarigione incompleta gli esiti estetici sono seri. Viene trattata precocemente con steroidi e aciclovir.
Il diabete, oltre alle polineuropatie, provoca non raramente una paralisi isolata del 3° nervo cranico (più raramente del 6°), a buona prognosi. I nervi che regolano fonazione e deglutizione (glossofaringeo, vago, accessorio e ipoglosso) sono compromessi nei tumori e nelle patologie linfonodali della base cranica e negli aneurismi della fossa posteriore.

 

Malattie del muscolo

Vi sono due gruppi principali di patologie che colpiscono la funzione contrattile del muscolo, le sindromi miasteniche, che interessano la sinapsi neuromuscolare, e le miopatie vere e proprie che interessano la fibra muscolare e costituiscono un gruppo di forme molto numeroso.

 

Nelle malattie della sinapsi neuromuscolare è compromesso il meccanismo di trasmissione fra nervo e muscolo, mediato dal neurotrasmettitore acetilcolina. La contrazione è normale all’inizio di un movimento, ma si esaurisce rapidamente. Nella forma più comune, la miastenia gravis, la trasmissione è disturbata da autoanticorpi che bloccano a livello postsinaptico i recettori dell’acetilcolina. Viene trattata con farmaci che aumentano artificialmente la quantità di acetilcolina a disposizione della sinapsi, bloccando la degradazione dell’acetilcolina da parte dell’enzima presente nella sinapsi. Trattamenti specifici sono però la timectomia e i farmaci immunosoppressori, diretti a ridurre la produzione di autoanticorpi e l’attacco anticorpale. Una seconda condizione, più rara, è la sindrome miasteniforme di Lambert-Eaton, in cui l’attacco anticorpale avviene a livello presinaptico e blocca la liberazione di acetilcolina. Può manifestarsi come complicanza secondaria di un tumore occulto, specie del polmone.

 

Nelle patologie della fibra muscolare (miopatie) è compromesso il meccanismo di contrazione, e i sintomi sono costituiti da perdita di forza, che inizia usualmente nella porzione prossimale degli arti. Le cause possono essere le infiammazioni del connettivo intramuscolare, spesso su base autoimmune (polimiositi e dermatomiositi), che si sviluppano nell’età adulta e vanno trattate a lungo con steroidi.

 

Il gruppo più importante di miopatie è costituito dalle alterazioni primarie delle fibre muscolari (distrofie muscolari) di cui si stanno identificando i meccanismi molecolari (per ora con scarsi progressi terapeutici). La malattia più frequente e grave è la distrofia muscolare di Duchenne, trasmessa dalla madre (che è una portatrice sana) attraverso il cromosoma X e dovuta alla mancanza di una proteina della membrana delle fibre muscolari (denominata distrofina). Si manifesta nei maschi, in età infantile e progredisce fino alla paralisi respiratoria, che sopravviene attorno ai 20 anni. Vi sono molte altre forme miodistrofiche, con differenti modalità di trasmissione ereditaria, delle quali si vanno identificando le proteine responsabili della disfunzione muscolare. Un terzo tipo di miopatie colpisce i meccanismi respiratori del muscolo, contenuti nei mitocondri (miopatie mitocondriali), che coinvolgono anche altri organi a elevato livello metabolico, come la retina e il sistema di conduzione cardiaco.